Gli elettori lombardi il 22 ottobre sono chiamati alle urne per il cosiddetto “referendum per l’autonomia”.
Il quesito è il seguente: “Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”.
C’è il richiamo all’unità nazionale e soprattutto alla Costituzione, che all’art. 116, terzo comma, consente alle Regioni di ottenere maggiore autonomia. Insomma, il quesito può essere tradotto così: “volete voi lombardi più autonomia ai sensi della Costituzione vigente?”.
La risposta è alquanto scontata e non può che essere positiva. Chi può essere contrario a ottenere più autonomia nel rispetto della Costituzione?
Se leggiamo bene l’art. 116, terzo comma, della Costituzione, scopriamo che in effetti la Costituzione consente alle Regioni di ottenere, “con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali” “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Non si prevede un referendum, semmai il solo obbligo di sentire gli enti locali (città metropolitane, province e comuni).
Sorgono, a questo punto, legittimamente diverse perplessità sull’utilità effettiva di questo referendum: perché dobbiamo affermare che vogliamo più autonomia come consentito dalla nostra Costituzione e nel rispetto dell’unità nazionale con un referendum, se la norma costituzionale che si vuole attuare non lo prevede come obbligatorio? Cosa impedisce alla Regione di attivarsi subito per ottenere più materie di competenza esclusiva, come consente l’art. 116, terzo comma, della Costituzione? Lo sta, ad esempio, già facendo la Regione Emilia Romagna, e probabilmente arriverà prima della Lombardia. Ci si poteva attivare sin dal 2001, quando la norma costituzionale fu introdotta: da allora la Regione non poteva attivarsi e procedere?
Ricordiamo infatti che l’art. 116, comma terzo, fu introdotto con la riforma costituzionale del 2001, proposta dal centrosinistra e osteggiata dalla Lega ma poi votata dalla maggioranza dei cittadini con referendum nazionale. Si voleva introdurre il cosiddetto “regionalismo differenziato”, ossia la possibilità per le Regioni di ottenere più autonomia, con l’attribuzione ad esse di altre materie di legislazione esclusiva, tra quelle ricomprese nella competenza concorrente (quelle elencate nell’art. 117, terzo comma, per le quali spetta alla Regione la competenza legislativa, salvo la competenza dello Stato a porre i principi fondamentali: ad es., sanità, governo del territorio, istruzione, tutela e sicurezza del lavoro, ricerca e innovazione, protezione civile, cooperazione transfrontaliera ecc.) e tra alcune ricomprese nella competenza statale (giudice di pace, norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambente, dell’ecosistema e dei beni culturali).
L’art. 116, terzo comma, della Costituzione è una coerente applicazione del principio di sussidiarietà, costituzionalizzato sempre con la riforma del 2001, il quale, come noto, afferma che ciò che può essere realizzato dagli enti politici inferiori (nel nostro caso le Regioni) non lo deve fare quello superiore (lo Stato). Una sussidiarietà però responsabile, che implica una possibile differenziazione dell’autonomia, perché, per non creare situazioni di malagestione accompagnati da uno sperpero di soldi pubblici, è giusto che siano le Regioni che garantiscono condizioni economiche, finanziare e amministrative all’altezza a poter richiedere maggiore autonomia. E, al contempo, una sussidiarietà solidale, perché si prevede in Costituzione (art. 119), meccanismi perequativi per sostenere le Regioni e gli enti locali in difficoltà e quelli con minore capacità fiscale.
Non possiamo non rilevare che nei 16 anni dall’introduzione della riforma nulla si è fatto, nonostante che la Lega Nord, che si accredita (a parole) campione dell’autonomia, sia stata, con il centrodestra, al governo nazionale per 10 dei 16 anni, e al governo regionale per tutto il periodo. In verità nel 2007 il presidente della Regione Lombardia Formigoni avviò il procedimento dell’art. 116, instaurando le iniziali trattative con il Governo Prodi, ma cessarono con il nuovo Governo Berlusconi IV, che vedeva nella compagine governativa, come ministro dell’Interno, niente meno che l’attuale presidente della Regione, Roberto Maroni. Eppure il procedimento si è arrestato.
Maroni divenuto presidente della Regione aveva tutta la legislatura per riavviare finalmente il procedimento per ottenere più autonomia e aveva in questo l’appoggio anche delle opposizioni. Siamo arrivati però a fine legislatura con un nulla di fatto e invece che procedere si chiamano i cittadini alle urne…
Non può non sorgere il sospetto di un utilizzo strumentalmente elettorale dell’iniziativa referendaria. A pochi mesi dalle elezioni regionali il referendum consente a Maroni di apparire il campione dell’autonomia, cavalcando il facile populismo del “prima i lombardi”, pur non avendo fatto nulla in tal senso in 5 anni (e come forza politica di maggioranza in Regione in 16 anni!).
Grande poi è il disagio di fronte alla stessa informazione istituzionale di Regione Lombardia, che pare scorretta e piegata alla propaganda autonomista. Siamo inondati di manifesti in cui si parla di “referendum per l’autonomia”, come se la Lombardia non l’avesse già: semmai è un referendum per “più autonomia”, come consentito dalla Costituzione e certamente non renderà la Lombardia una Regione a statuto speciale, come si sente dire.
Il presidente Maroni asserisce che, con l’esito positivo del referendum, la Lombardia tratterrà almeno la metà del “residuo fiscale”, ossia la differenza tra le tasse pagate allo Stato dai cittadini lombardi e quanto lo Stato restituisce sul territorio regionale. Era questa la sua promessa elettorale con la quale è stato eletto, anche se allora Maroni prometteva che ben il 75% delle tasse sarebbero rimaste in Lombardia. Ovviamente si trattava di promessa oggettivamente inattuabile e infatti inattuata. Come inattuabile è la pretesa anche solo di trattenere la metà, che è pari a 27 miliardi, su un residuo di 54, perché non è possibile ottenere questo a Costituzione invariata e tanto meno per via di un semplice referendum consultivo. Semmai si avranno le risorse conseguenti all’attribuzione di nuove materie di autonomia, ma ciò comporta, secondo la stima degli esperti, 2-2,5 miliardi all’anno in più.
E poteva poi mai mancare anche un accenno all’immigrazione? Ovviamente no. Nelle slide del sito della Regione leggiamo che il referendum consentirà di avere anche più poteri in materia di sicurezza e immigrazione. Ovviamente è falso, non rientrando nelle materie che possono essere acquisite dalla Regione ai sensi dell’art. 116 Cost.
Eppure, nonostante tutto ciò, riteniamo realmente utile che la Lombardia acquisisca, concretamente e non con retorica populista, ulteriori forme di autonomia, nel contesto della Costituzione, e secondo i principi di sussidiarietà responsabile e solidale delineata. Occorre semmai chiarire quale modello di autonomia vogliamo perseguire, quello sostenibile e solidale, o quello autarchico e chiuso che certe forze politiche propugnano?
Dobbiamo anche dirci che modello di Regione vogliamo. È contraria alla nostra concezione di autonomia il creare un nuovo centralismo regionale. L’autonomia deve essere espressione del principio di sussidiarietà sempre, e dunque senz’altro deve declinarsi nella dimensione regionale rispetto a quella nazionale ma anche, e soprattutto, deve essere rispettosa delle autonomie locali e di quelle sociali. La Regione negli ultimi vent’anni è divenuta invece un ente gestore di ogni aspetto delle materie di competenza, invece che solo legislatore e regolatore, come dovrebbe essere, con pervasivi interventi che comprimono gli spazi di autonomia locali (si veda la mortificazione della città metropolitana) e delle realtà sociali (si considerino la congerie di poteri invasivi di intervento sul terzo settore e la sua attività).
Ricordiamo che l’art. 116, terzo comma, Cost. che si vuole attuare, impone di sentire gli enti locali, appunto per evitare un’attuazione autonomistica all’insegna del centralismo regionale.
Siamo insomma favorevoli a più autonomia per la Lombardia, quella vera, concreta, solidale e sussidiaria. Ma come esprimere questa posizione?
Riteniamo che l’opzione più coerente sia quella dell’astensione critica e motivata, una “astensione per la vera autonomia” e non contro l’autonomia, al fine di denunciare l’inutilità del referendum, che maschera la perdita di tempo prezioso e l’incapacità di chi attualmente governa la Lombardia di avviare un confronto con il Governo per ottenere realmente più autonomia, e per opporsi alla propaganda leghista, con gli indebiti significati che si vuole assegnare al referendum lontani dalla realtà e dalla verità.
Comprendiamo comunque anche l’opzione, espressa pure da alcuni sindaci di importanti città lombarde, di partecipare al referendum votando sì, un sì diverso e anch’esso, come per chi opta per l’astensione, con l’onere di una puntuale motivazione per ribadire quale è la vera e auspicabile autonomia per la nostra Regione e per non lasciare al presidente Maroni e alla Lega la bandiera mediatica dell’autonomia.
Dopo il referendum restano in ogni caso lo spazio e la responsabilità della politica, ossia il dovere delle forze politiche di assumere di fronte agli elettori chiare posizioni su quale autonomia maggiore si vuole, concretamente su quali materie (il referendum non lo dice) e con quale modello autonomistico regionale gestirle in coerenza con la Costituzione.