Il politico della parola, da De Gasperi alle Br
Nuova biografia dello statista a cento anni dalla nascita. «La vicenda oscura del suo assassinio non oscura la sua biografia di statista». Fu “padre costituente”, ministro, premier, segretario della Dc e in questi impegni «applicò il suo peculiare metodo inclusivo di decisioni ponderate e consensuali»
«Politico della parola se mai ce ne sia stato uno, si affacciò all’era della politica e della comunicazione di massa cercando di mantenere il suo schema logico e la sua volontà di convincere razionalmente il pubblico e l’elettorato»: è uno degli elementi della complessa figura di Aldo Moro di cui oggi, in tempi di chiacchiere a vuoto alimentate dai social, di populismi faciloni e di parole rimangiate, si avvertono al contempo la distanza temporale e la mancanza. Accusato di oscurità di linguaggio, era invece un oratore magari lento e non brillante, ma consequenziale e chiaro. È Guido Formigoni, docente di Storia contemporanea all’Università Iulm di Milano, socio fondatore di Polis, a descriverne la figura a cento anni dalla nascita nel volume Aldo Moro: lo statista e il suo dramma, di prossima uscita per Il Mulino.
Moro era nato a Maglie il 24 settembre 1916. Nel 1945 sposa Eleonora Chiavarelli e il matrimonio sarà arricchito da quattro figli. Giurista, “padre costituente” eletto tra le fila della Dc, quindi parlamentare, più volte ministro, segretario della Dc nel cruciale periodo 1959-‘64 e per lungo tempo presidente del Consiglio dei ministri (1963-’68 e 1974-’76). Ne ricordiamo in particolare il sacrificio finale, con il rapimento (e la strage della scorta) del 16 marzo 1978 e la barbara uccisione per mano delle Brigate Rosse il 9 maggio dello stesso anno.
In attesa di leggere la biografia dello statista che ha appena concluso, come descriverebbe anzitutto il giovane Moro?
«Aldo Moro crebbe come giovane intellettuale cattolico – spiega Formigoni a Polis Legnano – dotato di una fede cristiana convinta e di una cultura giuridica in cui spiccava una inconsueta apertura verso la moderna dimensione statuale. Intendendo lo Stato come strumento di una società articolata, si impegnò nelle organizzazioni intellettuali laicali del mondo cattolico, fino a livelli dirigenziali, che sotto il fascismo erano in sostanza l’unico modo per arricchire e articolare quella società. Vi rimase legato anche nella primissima stagione dopo la caduta del regime fascista, mentre sviluppava un’attività giornalistica e in qualche modo di analista della politica, che mostrava vivo interesse e coinvolgimento umano verso la nascente democrazia. Costruiva intanto una professionalità di giurista e insegnante universitario. Entrò direttamente in politica attraverso l’elezione alla Costituente dopo l’approdo alla neonata Democrazia cristiana».
Di Moro, allora giovanissimo, si segnala uno specifico contributo all’elaborazione della Costituzione.
«Sì, Moro matura nell’esperienza di elaborazione della Carta fondamentale della Repubblica, in cui ebbe un ruolo da protagonista, il senso primario della sua progettualità politica successiva. Dalla frequentazione e condivisione delle battaglie del gruppo dossettiano maturò la convinzione secondo cui il problema politico essenziale del dopoguerra era perseguire il progetto di Stato democratico e sociale delineato nella prima parte della Costituzione».
Fu anche collaboratore di De Gasperi…
«Da quell’esperienza ricavò la constatazione che la Dc poteva muoversi in quella direzione solo portandosi dietro la gran parte del moderatismo italiano: un concetto espresso nell’esigenza continua di unità del suo composito partito, che egli quasi mai abbandonò. Con il corollario di una politica di convergenze con altri partiti democratici, utile per gli equilibri con il retroterra ecclesiastico ma anche per l’allargamento progressivo dell’inclusione civile, nel quadro delicatissimo della guerra fredda. Qui stava l’intuizione dell’allargamento della democrazia con il centro-sinistra negli anni ’60 e poi il tentativo di coinvolgere più stabilmente il Pci negli anni ’70, pur rifiutando la proposta di Berlinguer di un governo insieme, che non era a suo parere matura».
Per conoscere Moro occorrerà ripercorrerne le idee e rileggerne i lunghi discorsi, comprenderne le “strategie”, studiarne gli anni alla guida della Dc, quelli spesi da ministro e poi quelli al timone dei governi di centrosinistra. Un’esistenza intensa, non esente da fatiche e solitudini… Infine il rapimento e il “martirio”. Un primo bilancio della sua figura?
«Potremmo osservare che la vicenda oscura del suo assassinio non oscura la sua biografia di politico e di statista. Oltre che lo stratega delle scelte cruciali per il sistema politico, egli fu anche guida efficace del governo, della politica estera, del paese insomma, in tempi difficili, quelli della modernizzazione, della crescita esplosiva della soggettività sociale. E applicò a queste vicende il suo peculiare metodo inclusivo di decisioni ponderate e consensuali: quello che ai critici pareva lentezza, rinvio, cinica convinzione dell’immutabilità degli eventi. Leggendo analiticamente la sua azione di governo non si vedono magari gesti eclatanti, ma una direttiva coerente e tante piccole realizzazioni. Il giudizio sugli esiti della sua parabola esistenziale può essere anche molto diverso a seconda dei punti di vista e dei giudizi storici, ma questo non dovrebbe impedire di considerare l’originalità delle sue intenzionalità e delle sue motivazioni. Molti aspetti della sua vita restano da conoscere meglio o almeno da approfondire, ma pare di poter dire che il segno lasciato dalla sua vicenda umana sia stato di tutta rilevanza nella storia d’Italia e probabilmente anche dell’Europa e del mondo contemporanei». [g.b.]