Percorso accidentato nella storia d’Italia

Nel 70° anniversario della Repubblica, il Comune ha proposta due serate pubbliche. Il 30 giugno al palazzo Leone da Perego si è parlato di voto alle donne e Costituzione. Hanno preso la parola i legnanesi Marta Cartabia, vice presidente della Corte costituzionale, e lo storico Giorgio Vecchio, del quale riportiamo l’intervento

Alla Cittadina che chiede di poter votare al plebiscito per l’annessione al Regno di Sardegna, risponde il Cittadino: «Oh se oggi gli uomini cominciassero a concedervi questo, domani per una simile ragione vorreste avere il diritto di essere anche elettrici per l’assemblea costituente».

Replica la Cittadina: «E perché no? Il suffragio non deve essere universale? Se escludete le donne cominciate intanto a ridurre a mezzo la vostra universalità».

Il dialogo tra i due prosegue. Il Cittadino afferma: «Ma la universalità del suffragio s’intende riguardo a quelli che ne sono capaci».

La Cittadina: «Per voi le donne sono incapaci quando si tratta di aversi le paghe, gli onori, il comando; ma sono capacissime quando si tratta di sostenere i pesi della società, di pagare le pubbliche imposte, e di assoggettarle a tutti gli obblighi prescritti dalle leggi civili e penali. Ove occorrano opere di carità, bisogno di tener vivo il patrio entusiasmo, le donne divengono angeli; angeli sono quando educano i figli al buon costume, alla religione, al sacro fuoco della patria. Perché un essere che con tante forze cospira al bene della nazione, deve poi escludersi dalle analoghe sue deliberazioni? Se le leggi devono obbligare anche le donne, devono essere fatte anche in loro concorso. Le bestie, che non hanno diritti, non hanno nemmeno doveri; e noi saremo a peggior condizione di quelle, cioè aggravate di obblighi senza poter godere diritti?».

Il Cittadino: «Se ponessimo le donne in un consiglio legislativo, quanti inconvenienti mia cara! Il minore male sarebbe il perdere nelle sedute il nostro tempo in vani cicalecchi».

 

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Questo dialogo fu pubblicato il 27 maggio 1848 su il Caffè Pedrocchi, a Padova, e mostra bene come la questione del voto delle donne fosse argomento già all’ordine del giorno negli ambienti risorgimentali. La nostre patriote – potremmo chiamarle le nostre “nonne” della Patria per distinguerle dalle “madri” costituenti del 1946-1947 – coglievano con lucidità il nesso tra indipendenza, unità nazionale e uguaglianza tra uomo e donna.

 

Inferiorità giuridica e politica della donna

Provenienti dai più diversi ambienti – dai salotti milanesi Cristina Trivulzio di Belgioioso e Clara Maffei, e anche la legnanese adottiva Ester Cuttica; dalle classi alte meridionali Antonietta De Pace ed Enrichetta Di Lorenzo, dal popolo di Foligno Colomba Antonietti e da quello di Catania Giuseppa Bolognara Calcagno, (‘Peppa la cannoniera’), dalla borghesia imprenditrice romana la martire del 1867 Giuditta Tavani Arquati – le patriote del Risorgimento sognavano l’Italia unita e libera, ma libera anche per le donne.

Anzi, qualcuna, come la veneziana Adele Cortesi, si spingeva oltre e teorizzava la superiorità della donna sull’uomo: ultimo essere creato da Dio, la donna era in cima alla gerarchia della natura.

Fatta l’unità, nei modi che sappiamo, il voto femminile venne messo da parte. Anzi, il Codice civile del 1865 (“Codice Pisanelli”) reintrodusse misure discriminatorie tipiche dell’ancien régime: riaffermò la supremazia del padre e del marito, confermò l’autorizzazione maritale per numerosi negozi giuridici, dalla compravendita di beni alla possibilità di agire e di testimoniare in giudizio. Impossibile, in questo contesto, pensare al diritto di voto.

Tra chi protestava c’era Anna Maria Mozzoni, la milanese venuta a risiedere a Rescaldina, che nel suo libro La donna in faccia al progetto del nuovo codice italiano, del 1865, affermava: «Ci hanno tolto il voto amministrativo, ci hanno tolto, maritate, la libera amministrazione dei nostri beni, hanno riconfermato l’irresponsabilità ai seduttori, ai mariti il diritto di assenza, ai padri l’esercizio esclusivo della patria potestà, hanno ricopiato tutte le nostre pretese incapacità, finalmente ci han messo a fascio coi deliranti, coi malfattori […]. Voi signori fate le leggi e noi non siamo consultate, ci confezionate in ogni maniera di salse e non ci domandate, neppure per forma, se ce ne stiamo a disagio».

 

Salvatore Morelli e la parità tra i sessi

Del resto, eravamo ben lungi dal suffragio universale maschile, visto che la legge elettorale sarda del 1848, estesa d’imperio al Regno d’Italia, prescriveva tali condizioni per poter godere del diritto di voto che, a conti fatti, i parlamentari del tempo erano eletti dall’1% della popolazione, ovvero dal 50% degli aventi diritto. Né servivano le battaglie solitarie: il deputato leccese, già mazziniano, Salvatore Morelli fu una delle pochissime voci maschili che lottò per la parità tra i sessi e, anzi, sollecitò le donne a organizzarsi e mobilitarsi.

Morelli merita di essere conosciuto e onorato: fu lui che, già nel 1867, presentò un progetto di legge dal titolo Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna, accordando alla donna i diritti civili e politici; fu lui che preparò un nuovo diritto di famiglia fondato sull’uguaglianza tra i coniugi, che riconosceva anche l’uso del doppio cognome; fu ancora lui che nel 1875 presentò un disegno di legge sul diritto di voto delle donne. Nulla da fare: Morelli morì nel 1880, solo e pure povero, visto che all’epoca non esistevano indennità e pensioni per i parlamentari.

Sorvolando su altre varie proposte – che pure ci furono – volte almeno a concedere alle donne il voto per le elezioni amministrative, si può dire che i tempi maturarono lentamente soltanto dopo la scomparsa di Morelli. Verso la fine del secolo, nel periodo aurorale del socialismo e del sindacalismo, si ebbe qualche primo, piccolo spiraglio: si cominciò con lo stabilire che le donne potevano essere elette nei consigli di amministrazione delle istituzioni di beneficenza, poi nei collegi probiviri competenti sui conflitti di lavoro.

 

Le grandi “battaglie” di inizio secolo

Intanto Anna Maria Mozzoni, la nostra “vicina di casa”, non demordeva, moltiplicava le sue pubblicazioni sui diritti della donna e anzi accentuava i toni della battaglia, anche a causa del suo avvicinamento politico al socialismo di Filippo Turati e della sua grande compagna Anna Kuliscioff. Tra le due signore del femminismo italiano permanevano differenze significative, ma è indubbio che il contributo di entrambe fu di assoluto rilievo, spaziando anche nel campo dei diritti delle lavoratrici o in quello della denuncia dello sfruttamento delle prostitute.

Con il nuovo secolo, nel clima internazionale marcato dalle proteste delle suffragette, si incentivarono le iniziative e comparvero sulla scena nuovi nomi, come quelli – tra i tanti – di Ersilia Majno, fondatrice (già nel 1899) della milanese Unione Femminile Nazionale e della femminista cattolica Adelaide Coari. Anna Kuliscioff si schierò adesso con maggior decisione, polemizzando pubblicamente con Turati, che continuava a ritenere secondaria la battaglia per il voto femminile rispetto ai grandi temi della lotta di classe.

Nel 1906 la Mozzoni riuscì a portare alla Camera una nuova mozione: «Tutte le donne (come tutti gli uomini) hanno diritto al voto, con e senza l’alfabeto, il quale se è massimo strumento di coltura, non crea però né la intelligenza, né il buon senso, né la visione cosciente dei pro­pri interessi. Vi abbiamo diritto perché siamo cittadine, perché paghiamo tasse ed imposte, perché siamo produttrici di ricchezza, perché paghiamo l’imposta del sangue nei dolori della maternità, perché infine portiamo il con­tributo dell’opera e del denaro al funzionamento dello Stato».

Tutto fu ancora inutile: la nuova legge elettorale del 1912 introdusse il suffragio universale maschile e non fece parola dei diritti delle donne. Il clima continuava a essere ostile e il retaggio tanto della tradizionale cultura cattolica quanto del positivismo e del lombrosianesimo rimanevano pesanti: del resto, proprio nel 1900, Moebius aveva pubblicato il suo noto testo su L’inferiorità mentale della donna.

 

Illusioni del dopoguerra e cappa fascista

Dopo la Grande Guerra molte opposizioni dovevano per forza ridursi. Il conflitto aveva visto le donne protagoniste e vittime: non solo nel sostituire gli uomini nei campi e nelle officine, ma anche nel volontariato, nella mobilitazione civile e persino in quella durissima esperienza che fu tipica delle “portatrici” della Carnia.

Nel 1919 la Camera approvò l’eliminazione della potestà maritale e riconobbe alle donne il diritto al voto: ancora una volta l’iter, però, si bloccò e l’iter legislativo non fu mai portato a termine. Intanto la «Civiltà Cattolica» non aveva perso tempo a bacchettare don Sturzo che nel programma del Partito Popolare aveva inserito il riconoscimento del voto alle donne: la concessione del voto, pur dando soddisfazio­ne «alle aspirazioni o ambizioni di poche donne» avrebbe minacciato di distogliere la donna dalla famiglia e dalla sua «naturale missione, educatrice e con­fortatrice della famiglia, missione ben più sublime che quella di elettrice, per travolgerla poi nel turbine della vita politican­te».

Le piccole aperture del dopoguerra vennero subito sigillate dal fascismo, che, da una parte, provvide a rimandare a casa tutte le lavoratrici assunte durante la guerra e, dall’altra, inibì alle donne molte professioni faticosamente conquistate nel tempo: dal 1923 le donne non poterono più diventare presidi nelle scuole medie; dal 1926 insegnare storia, filosofia diritto ed economia nelle scuole superiori; dal 1934 accedere ai concorsi pubblici nelle pubbliche amministrazioni. Nel 1938 fu stabilito che negli impieghi pubblici e privati le donne non potessero superare il 10% dei lavoratori presenti.

Del resto, cosa pensasse Mussolini delle donne, è cosa risaputa e basta una sua citazione del 1931 per rammentarlo: «La donna deve obbedire. Essa è analitica, non sintetica. Ha forse mai fatto dell’architettura in questi secoli? Le dica di costruirmi una capanna, non un tempio! Non lo può. Essa è estranea all’architettura che è la sintesi di tutte le arti […]. La mia opinione della sua parte nello Stato è in opposizione ad ogni femminismo […]. Nel nostro Stato essa non deve contare».

 

Pregiudizi persistenti  ben oltre la Costituzione

Insomma, ci volle la Resistenza per dare lo scossone decisivo, con la straordinaria partecipazione e lo straordinario sacrificio delle donne per la lotta di Liberazione. Che questo fosse il definitivo lasciapassare alla parità delle donne, però, è ardito sostenerlo. Si può dire che cattolici e comunisti si adattarono al voto delle donne, non certo che lo sostennero con entusiasmo. E tante remore mentali rimanevano solide e inscalfibili.

Alla Costituente, in sede di Commissione dei 75, non mancarono coloro che misero in rilievo i limiti intellettuali delle donne: «Si disse – osservava il 31 gennaio 1947 Giovanni Leone, futuro Presidente della Repubblica – che nessuna difficoltà esisteva per dare un più ampio respiro alla donna nella partecipazione alla vita pubblica del Paese. Già l’allargamento del suffragio alle donne costituisce il primo passo su questo piano. Si ritiene, però, che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giudiziaria non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare, con profitto per la società, a quella amministrazione della giustizia dove più può far sentire le qualità che le derivano dalla sua femminilità e dalla sua sensibilità, non può essere negato: si accenna qui, oltre che alla giuria – nel caso che questo istituto sia ripristinato – a quei procedimenti per i quali è più sentita la necessità della presenza della donna, in quanto richiedono un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Anche il Tribunale dei minorenni sarebbe la sede più idonea per la partecipazione della donna. Ma, negli alti gradi della Magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni».

C’era da fare ancora tanto cammino. E quel cammino non si concluse certo con il riconoscimento dei diritti politici delle donne e con l’approvazione della nostra splendida Carta Costituzionale.

Giorgio Vecchio