Dopo uno straordinario esordio con il romanzo Fra me e te, presentato anche a Legnano, Marco Erba pubblica il suo secondo romanzo, Quando mi riconoscerai (Edit. Rizzoli), in cui racconta una storia di violenza, amicizia, amore e perdono. Viola è la ragazza più bella del paese di Castenate, e coi gemelli Rodolfo e Italo non ha molto a che spartire, perché lei è la figlia di Giorgio Fontana, il capo dei fascisti, e i fascisti Rodolfo li odia. Ma la seconda guerra mondiale incombe, pronta a travolgere i loro destini. Quasi cinquant’anni dopo, nello stesso paese, Enea e Camilla si incontrano in prima elementare. Enea è composto, educato, sa già leggere, ma il mondo gli fa un po’ paura. Camilla è invece tutta sguardi taglienti e sfacciataggine. Strega, la chiamano alcuni, senza immaginare le ferite nascoste dietro ai suoi silenzi.

«Nel mio nuovo romanzo – dice a Polis Legnano Marco Erba – ricordi e frammenti sono niente, ma forse sono tutto. Perché la vita a volte ti toglie ogni cosa, però è anche il regalo più importante che hai. Credo che l’uomo sia fatto di desiderio e ciò che desidera di più è l’amore, la bellezza. L’uomo ha sete di cose belle»

Perché è convinto che la vita è sempre “avanti”?
«Sto leggendo un libro scritto da un pastore luterano il quale, nella visione di Lutero, dice che l’uomo è corrotto, nasce peccatore e senza la fede in Dio. Questa visione non la condivido, infatti sono cattolico. Credo ci sia il desiderio di Dio, della bellezza, della fede, il desiderio di autenticità e di amore, per questo la vita è sempre avanti. In ogni istante la vita, anche nei momenti più tragici, può donarti questo. Una persona del mio quartiere, che si è occupata di politica per una vita intera, ha sempre creduto nel futuro, di recente è morta di cancro. Anche nella fase terminale della malattia riceveva persone. Uno degli incontri più felici è stato quello con i giovani impegnati in politica. Come se lui, incontrando loro, vedesse che il futuro c’è ancora e che va avanti anche dopo di te. È vero: la vita è sempre avanti! L’idea che il futuro entra in noi prima che accada, così dice il poeta Rainer Maria Rile, è perché noi siamo fatti di desiderio e desidereremo fino all’ultimo nostro respiro. L’ho visto in mio nonno e in tante persone. Questa fame di futuro, questo desiderio, questa ricerca di bellezza che non finisci mai, questa vita che ti può sempre regalare qualcosa di bello fino all’ultimo secondo, mi ha fatto scrivere che la vita è sempre avanti»

Per un adolescente togliersi la maschera significa scoprire le proprie ferite e trovare anche delle feritoie?
«Sì! Infatti nel libro c’è Camilla, una adolescente, che si toglie la maschera ma con fatica perché strapparsi la maschera fa male, lacera e crea delle ferite. Quando si è indossata una maschera per difendersi dal mondo e nascondere la fragilità, rompere la maschera fa male, ferisce profondamente. Ma quell’episodio per Camilla è decisivo, da quel momento in poi comincia a cambiare, ad avere relazioni diverse, e uno stile diverso nelle relazioni perché, togliendosi la maschera, ammette i suoi errori, le sue ferite, la sua fragilità e li trasforma in relazione autentica»

Suscitare domande più che dare risposte: per questo privilegia raccontare la vita concreta?
«Certamente. Io amo la filosofia, l’ho studiata poco, meno di quanto vorrei, mi piace molto. Ho studiato un po’ di teologia e mi piace molto, ma se vogliamo parlare di fede e di Vangelo mi piace molto il Gesù delle parabole, che spiega alla sua cerchia ristretta, parla alle folle distanti, che non capiscono e non possono comprendere tutto perché lo stile di Gesù è suscitare domande, aprire domande. Il racconto è sempre una parabola, letteralmente è qualcosa che tu getti a chi ti leggerà, o ascolterà, poi ne farà quello che vuole. Io credo che le storie servono proprio a questo, a colpire l’ascoltatore. Le storie ti colpiscono e ti coinvolgono, in questo modo aprono domande. C’è una bella immagine di Lucrezio, ripresa da Tasso, che dice come fai a far prendere a un bambino una medicina amara? Prendi una tazza e sul suo bordo metti del miele. In questo modo il bambino sente il gusto del dolce e beve tutta la medicina amara che gli farà bene. Le storie sono un po’ così. Il racconto è il miele che ti attira, ma dopo aver bevuto il racconto, la medicina sono le domande che ti si aprono dentro, e turbano anche un po’, e ci devi fare i conti»

Silvio Mengotto